Buona domenica con questa bellissima riflessione per la giornata di oggi in onore del Beato Paolo VI.
Gianfranco Ravasi ricorda Paolo VI
Giovanni Battista Montini il 19 ottobre 2014 sarà proclamato beato, atto conclusivo del Sinodo straordinario sulla famiglia. La Congregazione delle Cause dei Santi ha promulgare il decreto riguardante il miracolo attribuito all’intercessione del venerabile servo di Dio Paolo VI, che ha riguardato un bambino ancora nel grembo materno. Di seguito vi proponiamo una parte dell’intervento del cardinale Gianfranco Ravasi su “Paolo VI e il mondo della cultura”, pubblicato su “Luoghi dell’Infinito”.
«Congedandomi dalla scena di questo mondo e andando incontro al giudizio e alla misericordia di Dio, dovrei dire tante cose, tante… Sul mondo: non si creda di giovargli assumendone i pensieri, i costumi, i gusti, ma studiandolo, amandolo, servendolo. Chiudo gli occhi su questa terra dolorosa, drammatica e magnifica, chiamando ancora una volta su di essa la divina bontà… O uomini, comprendetemi: tutti vi amo nell’effusione dello Spirito Santo… E alla Chiesa: abbi il senso dei bisogni veri e profondi dell’umanità».
Abbiamo voluto affidarci ad alcune battute di quel testo mirabile ed emozionante che è il Pensiero sulla morte, il testamento che Paolo VI stese il 30 giugno 1965, due anni dopo la sua elezione a pontefice, e a distanza di tredici dalla sua morte, che avverrà il 6 agosto 1978.
In queste righe si intuisce tutto lo spirito con cui egli ha dialogato con la cultura e la società moderna in uno dei periodi più laceranti eppure creativi del secolo scorso, in un’epoca in cui si affacciava ormai non solo la postmodernità ma apparentemente un vero e proprio post-cristianesimo. Memore del testamento giovanneo di Cristo riguardo al discepolo presente nel mondo ma non appartenente al mondo, papa Montini aveva con simpatia e con intimo travaglio «studiato, amato e servito» il mondo e la sua storia, senza perdere mai di vista la stella della trascendenza.
Quelle sue parole così folgoranti e sofferte erano il suggello più autentico di un amore per l’uomo e per la sua vicenda «dolorosa, drammatica e magnifica» attestato dall’intero itinerario non solo del suo pontificato ma anche della sua stessa esistenza. Proprio per questo è difficile ricomporre in poche righe i lineamenti del suo profilo di uomo in dialogo col mondo, con i suoi splendori e le sue miserie. Si dovrebbe, ad esempio, percorrere tutto il suo lungo itinerario formativo fatto di letture selezionate, acute e appassionate che lo introducevano in modo particolare nell’orizzonte culturale francese, che rimarrà sempre una sorta di sua seconda patria intellettuale.
Basterebbe, al riguardo, citare soltanto tre nomi: Jean Guitton, che rimarrà un suo interlocutore privilegiato anche attraverso i noti Dialoghi con Paolo VI (Mondadori 1967), pagine di grande rilievo simili a un arcobaleno tematico; Jacques Maritain, a cui affiderà il messaggio conclusivo del Concilio Vaticano II per gli uomini di cultura; Jean Daniélou, il teologo che egli creerà cardinale, espressione della più ampia cerchia dei teologi conciliari francesi come Congar, Chenu, De Lubac, e così via.
Una ricerca di questo tipo offrirebbe una ricca messe di spunti sia tematici sia personali. […] Per cogliere il suo rapporto con la cultura contemporanea sarebbe fondamentale svolgere un itinerario all’interno delle sue encicliche, a partire da quella programmatica, Ecclesiam Suam (1964), passando attraverso quelle sociali come la Populorum progressio (1967) che rivelava una visione planetaria del problema dello sviluppo dei popoli. Ma certamente una sorta di vessillo emblematico per l’incontro con la vicenda umana in quel particolare contesto fu la costituzione pastorale conciliare Gaudium et spes, intitolata significativamente «La Chiesa nel mondo contemporaneo».
Essa respira l’apertura e l’ansia montiniana di incrociare la società anche nelle piazze secolarizzate, persino nell’ambito dell’ateismo, tant’è vero che sarà lui a creare nel 1965 il Segretariato per i non Credenti, destinato a essere inglobato da san Giovanni Paolo II nel Pontificio Consiglio della Cultura, che l’ha attualmente rinverdito col Cortile dei gentili voluto da Benedetto XVI, un’iniziativa erede anche dello spirito di Paolo VI.
Si pensi, poi, quanto per questo Papa sia stata tormentata la scelta della pubblicazione di un’enciclica come l’Humanae vitae (1968), in una fase storica particolarmente turbolenta. Si sono spesso giudicate in modo critico le sue incertezze apparenti, smentite comunque da decisioni dall’impatto sociale arduo come questa, e quindi nate da una scelta meditata e sofferta. Ma proprio le sue esitazioni e attese sbocciavano dalla finezza della sua sensibilità nei confronti di una società sempre più variegata, frammentaria e in forte evoluzione.
In questa luce si può collocare anche il suo desiderio di varcare i perimetri spaziali tradizionali del papato attraverso i viaggi apostolici in Terra Santa (1964), all’Onu e in India (1965), in Colombia (1968), in Uganda (1969), in Australia e Oceania (1970). Nei discorsi indirizzati a quei popoli si intuiva l’ansia di aprire la Chiesa a nuove sfide, superando l’eurocentrismo culturale e spirituale.
[…] D’altronde, bisogna riconoscere che tra i temi molteplici e i soggetti più diversi della società affrontati da questo Papa c’era anche la gioventù e noi sentivamo allora vivo questo suo interesse, nonostante la particolare riservatezza e configurazione del suo carattere. Egli, infatti, aveva detto: «Molti oggi parlano dei giovani; ma non molti, mi pare, parlano ai giovani». Questa frase è significativa per illustrare un suo approccio più generale anche agli altri ambiti: bisogna, certo, interessarsi alla questione giovanile, femminile, familiare, e così via, ma ciò che è importante è andare in mezzo a queste situazioni, capire il linguaggio dei vari soggetti, coinvolgersi nelle loro domande, parlare alla loro mente e al loro cuore.
È, questa, una genuina operazione culturale, consapevoli come siamo che la cultura non è solo l’aristocrazia del pensiero, delle arti, della scienza, ma è ormai una categoria antropologica generale che abbraccia ogni esperienza umana cosciente, personale e sociale.
[…] Già nel 1928 l’allora trentunenne Giovanni Battista Montini intuiva la necessità di un confronto tra scienza e fede, tra filosofia e spiritualità, tra verità e amore e nella sua Lettera agli Assistenti della Federazione Universitari Cattolici Italiani (la Fuci) scriveva: «Carità e verità non sono nemiche; come non lo sono scienza e fede, pensiero umano e pensiero divino; estrema elaborazione critica ed estrema semplicità mistica».
Lunga era e sarebbe stata la stagione dei duelli tra fede e ragione, con una teologia arroccata in autodifesa apologetica e una scienza che bersagliava di frecciate quella che considerava ormai una roccaforte in disarmo. Montini già allora invitava non solo al rispetto e alla non conflittualità tra i due livelli, lo scientifico e il teologico, ma anche a non temere un incontro in un duetto che conservasse le identità senza cancellarle ma le intrecciasse in un contrappunto armonico.
[…] Queste “due sorelle” sono state celebrate da Paolo VI: come abbiamo visto, con la morte attraverso il suo testamento luminoso, ma anche con la bellezza. A quest’ultimo riguardo vogliamo evocare una sola attestazione (potremmo infatti citare molti segni che vanno in questa linea, come la sua lettera in occasione del VII centenario della nascita di Dante nel 1965).
Il 7 maggio 1964 il Papa aveva convocato nella Cappella Sistina un folto gruppo di artisti e a loro aveva indirizzato un discorso colloquiale appassionato il cui cuore consisteva nella consapevolezza che si era consumato tra arte e fede un divorzio anche per colpa della stessa Chiesa: «Vi abbiamo imposto come canone primo l’imitazione a voi che siete creatori, sempre vivaci di mille idee e di mille novità…
Vi abbiamo peggio trattati, siamo ricorsi ai surrogati, all’oleografia, all’opera d’arte di pochi pregi e di poca spesa… Siamo andati anche noi per vicoli traversi, dove l’arte e la bellezza – e ciò che è peggio per noi – il culto di Dio sono stati male serviti». Eppure la grande sfida dell’artista era la stessa del credente autentico, cioè «carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme e di accessibilità».
E così il 23 giugno 1973 Paolo VI poteva inaugurare ai Musei Vaticani la Collezione d’Arte Religiosa Moderna (ora Collezione d’Arte Contemporanea) che attestava la possibilità di un superamento «di una tragica assenza, del bisogno insopprimibile di qualcosa, anzi di Qualcuno che dia senso all’effimero, all’altrimenti agitarsi nel tempo e nello spazio di questo mondo finito […]» .
card. Gianfranco Ravasi