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in preparazione al sinodo

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“La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”

Sabato 3 ottobre, memoria del Transito di San Francesco di Assisi, Patrono di Italia. Dalla CEI ci giunge l’invito a partecipare alla iniziativa di preghiera “Le famiglie illuminano il Sinodo”. Si tratta di creare quella stessa sera sul territorio, in forma domestica nella propria casa, o comunitaria in gruppi parrocchiali o diocesani, un incontro in cui invocare lo Spirito Santo e porre sulla finestra delle proprie abitazioni un lume acceso. E’ un modo per condividere l’incontro di preghiera che il Santo Padre presiederà con le famiglie, a Roma, in piazza San Pietro, dalle 18,00 alle 19,30 dello stesso giorno.

Incontro diocesano con Sua Beatitudine Gregorio III Laham, Patriarca di Siria e Medio Oriente che sarà padre sinodale durante il Sinodo. A tal proposito, alla presenza del nostro Vescovo, terrà una testimonianza sull’andamento dei lavori sinodali. L’incontro si terrà Lunedi 26 ottobre, alle 19,30, presso la Parrocchia Maria SS. della Colonna e San Nicola, in Rutigliano.

1° settembre 2015 PRIMA GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA PER LA CURA DEL CREATO

Sin dall’inizio del suo Pontificato Papa Francesco non ha mai smesso di stupire. Quest’uomo venuto “dalla fine del mondo” da quasi due anni sta silenziosamente traghettando la Chiesa, ma non solo, verso nuovi orizzonti, e lo fa attraverso numerosi fuori programma come il Giubileo della Misericordia, l’enciclica “Laudato Sii” o l’istituzione, poco meno di un mesa fa, della prima Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato, che verrà celebrata in tutto il mondo proprio oggi. “Con i vescovi, i sacerdoti, le persone consacrate e i fedeli laici della Curia romana, ci troveremo nella Basilica di S. Pietro alle ore 17, per la Liturgia della Parola, alla quale invito a partecipare tutti i romani, tutti i pellegrini e quanti lo desiderano”.

Il Santo Padre, che ha affidato il suo ministero pastorale a San Francesco,sembra attualizzare il messaggio evangelico attraverso l’esempio del poverello di Assisi. “Come cristiani vogliamo offrire il nostro contributo al superamento della crisi ecologica che l’umanità sta vivendo. Per questo dobbiamo prima di tutto attingere dal nostro ricco patrimonio spirituale le motivazioni che alimentano la passione per la cura del creato, ricordando sempre che per i credenti in Gesù Cristo, Verbo di Dio fattosi uomo per noi, la spiritualità non è disgiunta dal proprio corpo, né dalla natura o dalle realtà di questo mondo, ma piuttosto vive con esse e in esse, in comunione con tutto ciò che li circonda.”

Il Pontefice, come vero profeta della storia, legge nella crisi ecologica in cui siamo immersi un richiamo alla conversione, affinché l’uomo torni a scoprire la sua primordiale vocazione, quella di custodire l’opera di Dio. Ed è proprio questo l’obiettivo principale della giornata di preghiera, risvegliare le coscienze portando al centro dell’attenzione la relazione tra individuo e natura.
All’ evento mondiale fa eco il nuovo Dossier pubblicato dalla Caritas dal titolo “Ecologia integrale. L’industria estrattiva mina sempre più ambiente e salute delle comunità locali”, dedicato in modo particolare al tema dell’ambiente e alla situazione che vive la Repubblica del Congo in Africa.

Nel testo viene ricordato come la Terra sia andata incontro ad un innalzamento costante delle temperature, al depauperamento progressivo degli ecosistemi, all’aumento del 470% dei disastri naturali negli ultimi 30 anni e alla devastazione di intere comunità. “A livello mondiale – viene sottolineato nel dossier – sono ancora una volta i più poveri a pagare il conto dei cambiamenti climatici e dell’inquinamento”.

In particolare la documentazione raccolta dalla Caritas si concentra su quanto sta accadendo nella Repubblica del Congo dove l’avvelenamento dell’ambiente e delle persone ad opere delle compagnie petrolifere presenti nel Paese testimonia “un modello di sviluppo globale insostenibile, ingiusto e violento”. Anche in questo caso sembra necessaria una profonda revisione degli stili di vita dell’uomo moderno, affinché attraverso la consapevolezza dalla sua chiamata, possa collaborare a diffondere una cultura della vita e non della morte.

“Collaboratori della vostra gioia” (2Cor 1, 24)

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Con l’ordinazione di don Gianni Grazioso, mentre porgiamo come comunità di S. Antonio i nostri più sentiti e affettuosi auguri per il grande dono del sacerdozio e per il suo onomastico, diamo doverosa notizia del prossimo avvicendamento che ci riguarda. Il vescovo Mons Domenico Padovano ha nominato don Gianni vicario parrocchiale di S. Maria del Carmine in Pezze di Greco per il prossimo anno pastorale. Al suo posto ha nominato l’Accolito Filippo Di Bello della Parrocchia Madonna del Rosario in Monopoli nostro collaboratore parrocchiale. Domenica 28 alle ore 10.00, mentre don Gianni, che resta in mezzo a noi per tutta la stagione estiva, celebrerà la sua prima Messa in mezzo a noi accoglieremo calorosamente Filippo. Facciamo gli auguri perchè il loro servizio sia sempre ad immagine di Gesù Buon Pastore.

DAI SERMONI DI S. ANTONIO

la cacciata dei cattivi dal regno e l’accoglienza dei buoni

“Non chiunque mi dice: Signore, Signore, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, entrerà nel regno dei cieli (Mt 7,21).

Il Signore ha questo nome, in lat. Dominus, perché signoreggia, o domina su tutte le creature; o perché sta a capo della casa (in lat. domus, casa); o può voler dire anche dans minas, che dà (fa) minacce. La Glossa commenta così questo passo del vangelo: “Il cammino verso il regno di Dio consiste nell’obbedienza, e non nell’invo­ca­zione del suo nome; e neppure lo si invoca con sincerità e convinzione, quando la proclamazione del nome non concorda con la volontà; e infatti dice l’Apostolo: “Nessuno può dire: Signore Gesù, se non sotto l’azione dello Spirito Santo” (1Cor 12,3). Dire con sincerità: “Signore Gesù”, significa credere con il cuore, confessarlo con la bocca e testimoniarlo con le opere. Una cosa senza l’altra equivale a negare; infatti, per quante lodi faccia risuonare la lingua, la vita poi lo bestemmia. Gridano “Signore” coloro che non sono suoi servi, coloro che non temono le sue minacce.

Dice infatti il Signore stesso con le parole di Isaia: “Mi grida da Seir: Custode, quanto resta della notte? Custode, quanto resta della notte? Risponde il custode: Viene il mattino e poi verrà la notte; se volete cercare, cercate; convertitevi e venite!” (Is 21,11-12). Seir s’interpreta “ispido”, ed è figura del peccatore, oppresso dalle spine delle ricchezze e delle preoccupazioni. Perciò la Genesi dice che Esaù si stabilì nella terra di Seir, della regione di Edom (cf. Gn 36,8) E osserva che Esaù fu chiamato Seir e Edom: Seir perché peloso, Edom a motivo delle lenticchie rosse per le quali aveva venduto la primogenitura (cf. Gn 25,29). Esaù vuol dire anche “mucchio di pietre”, e Edom “sangue”. Dove c’è un mucchio di pietre, cioè di ricchezze, lì ci sono anche le spine pungenti delle preoccupazioni e spargimento di sangue. Il peccatore dunque grida: “Custode, quanto resta della notte?”. Ecco qui “la ruota in mezzo ad un’altra ruota” (Ez 1,16; 10,10).

Nel vangelo di Matteo è detto due volte “Signore”, e in Isaia due volte “Custode”, per indicare che colui che è il Signore, è necessario che sia anche il Custode, per custo­dire perfettamente la casa della quale è a capo. Questo duplice nome di Signore comprende in sé il creatore e il giudice, e tra questi due estremi viene posto il centro, cioè il custode. Gesù Cristo nella creazione delle cose fu Signore, e sarà Signore anche nell’esame del severo giudizio perché sarà giudice e renderà a ciascuno ciò che è giusto. Però tra questi due momenti fu custode nella notte: il Signore assunse la condizione di servo per custodire i servi. Infatti leggiamo nel vangelo di Luca che “passava la notte in orazione” (Lc 6,12). Il custode della notte passava la notte in orazione, non per sé ma per la sua creatura, che era venuto a liberare.

Fu ancora custode della notte nella sua passione. Leggiamo sempre nel vangelo di Luca: “Gesù si allontanò da loro quanto il tiro di un sasso, e inginocchiatosi pregava” (Lc 22,41). Solo pregava per tutti, perché solo, per tutti avrebbe sofferto. Dice anche Ambrogio: “Patì per me, egli che in sé non aveva nulla per cui dovesse patire”. Si inginocchia per mostrare, con la posizione del corpo, l’umiltà dello spirito. Allora fu veramente umile e misericordioso, ma ritornerà severo e inesorabile per fare della terra un deserto e distruggere da essa i malvagi.

  E di questi malvagi egli si lamenta con le parole del profeta Osea: “Si sono rimpinzati, si sono saziati, il loro cuore si è inorgoglito e si sono dimenticati di me. Perciò sarò per loro come una leonessa, come un leopardo sulla via degli Assiri. Li assalirò come un’orsa cui sono stati rapiti i piccoli; dilanierò le loro interiora fino al fegato e come un leone li sbranerò. La belva del campo li dilanierà. Viene da te la tua rovina, o Israele: solo da me ti potrà venire l’aiuto” (Os 13,6-9). Osserva che in questo passo sono poste in evidenza otto cose, e cioè quattro vizi e i loro quattro corrispondenti castighi: “si sono riempiti”, ecco le ricchezze e l’avari­zia; “si sono saziati”, ecco la gola; “il loro cuore si è inorgoglito”, ecco la superbia e la vanagloria; “si sono dimenticati di me”, ecco la lussuria.

Dice infatti Ezechiele: “Poiché mi hai dimenticato e mi hai gettato dietro al tuo corpo, anche tu porterai le tue scelleratezze e le tue fornicazioni” (Ez 23,35). Getta il Signore dietro al suo corpo colui che, dimentico dell’amara sua passione, si abbandona ai piaceri del corpo e per amore del suo corpo diventa schiavo della gola e del ventre. “Perciò” – dice il Signore – “sarò come una leonessa” contro quelli che si sono rimpinzati; “come un leopardo nella via degli Assiri, assalirò” quelli che si sono saziati; “come un’orsa cui sono stati rapiti i piccoli dilanierò fino al fegato le interiora” dei superbi, che si sono inorgogliti nel loro cuore. Amiamo con il fegato: in esso è simboleggiato l’amore alle cose terrene, e il Signore dilanierà le interiora di chi le ama. “E come un leone consumerò” i lussuriosi, “e la belva del campo”, che è il diavolo, “li strazierà con la spada della morte eterna, e così avranno come torturatore nella loro sofferenza colui che hanno ascoltato come istigatore nella colpa.

“La tua rovina viene da te stesso, o Israele”, come dicesse: Se sei andato in rovina, la colpa è tua. Ma il soccorso non ti potrà venire da nessun altro che da me, che custodisco Israele. Giustamente dunque è detto: “Custode, quanto resta della notte? Custode, quanto resta della notte?”. “E il custode risponde: Viene il mattino e poi verrà la notte. Se volete cercare, cercate. Convertitevi e venite”.

Custode deriva da cura; mattino, in lat. mane, dall’aggettivo manus, buono, perché gli antichi chiamavano la mano “un bene”; infatti che cosa c’è di meglio della luce (del mattino, mane)? Il Signore, nostro custode, che ha cura di noi (cf. 1Pt 5,7), a coloro che gridano: “Signore, Signore!”, dice: “Viene il mattino”, cioè la luce della grazia; camminate dunque finché è giorno, perché arriverà la notte nella quale non potrete più far niente. Se un albero, dice Salomone, cade rivolto a mezzogiorno, cioè alla vita, o se cade rivolto a settentrione, vale a dire alla morte, resta dove è caduto (cf. Eccle 11,3). Lavora dunque assiduamente finché è giorno, o peccatore, perché non c’è né azione né ragione in quell’inferno verso il quale ti stai affrettando, anzi ti stai lanciando con i tuoi peccati.

Se dunque vi proponete di cercare, cercate finché è giorno. E se cercate, che cosa vuol dire cercare? “Convertitevi – risponde – e venite”. Ecco come si cerca Dio e come lo si trova. Il Signore non si deve cercarlo gridando “Signore, Signore!”, perché egli cerca adoratori che lo adorino in spirito e verità (cf. Gv 4,23-24), cioè nello spirito della contrizione e nella verità della confessione.

FESTA S. ANTONIO 2015

LOCANDINA SANT'ANTONIO WEB

 

Sant’ Antonio di Padova Sacerdote e dottore della Chiesa

13 giugno

Lisbona, Portogallo, c. 1195 – Padova, 13 giugno 1231

Fernando di Buglione nasce a Lisbona. A 15 anni è novizio nel monastero di San Vincenzo, tra i Canonici Regolari di Sant’Agostino. Nel 1219, a 24 anni, viene ordinato prete. Nel 1220 giungono a Coimbra i corpi di cinque frati francescani decapitati in Marocco, dove si erano recati a predicare per ordine di Francesco d’Assisi. Ottenuto il permesso dal provinciale francescano di Spagna e dal priore agostiniano, Fernando entra nel romitorio dei Minori mutando il nome in Antonio. Invitato al Capitolo generale di Assisi, arriva con altri francescani a Santa Maria degli Angeli dove ha modo di ascoltare Francesco, ma non di conoscerlo personalmente. Per circa un anno e mezzo vive nell’eremo di Montepaolo. Su mandato dello stesso Francesco, inizierà poi a predicare in Romagna e poi nell’Italia settentrionale e in Francia. Nel 1227 diventa provinciale dell’Italia settentrionale proseguendo nell’opera di predicazione. Il 13 giugno 1231 si trova a Camposampiero e, sentondosi male, chiede di rientrare a Padova, dove vuole morire: spirerà nel convento dell’Arcella

Lo Spirito santo, compagno inseparabile

Lo Spirito che procede dal Padre è anche lo Spirito del Figlio, inviato da lui e suo compagno inseparabile. E dopo che Gesù lo ha inviato dalla sua gloria presso il Padre, è il compagno inseparabile di ogni cristiano.

Il lezionario della chiesa universale prevede per la solennità della Pentecoste il vangelo giovanneo che narra l’apparizione di Gesù risorto ai discepoli la sera del primo giorno della settimana, quando egli soffiò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito santo” (cf. Gv 20,19-23). Il lezionario della chiesa italiana prevede invece, a seconda dell’annata, altri due brani tratti dal quarto vangelo, che in verità sono costruzioni un po’ artificiali, in quanto costituiti da versetti appartenenti a contesti diversi. In questa annata B il testo è composto da due versetti in cui Gesù promette ai discepoli lo Spirito santo (cf. Gv 15,26-27) e da altri quattro nei quali egli specifica l’azione dello stesso Spirito nei giorni della chiesa (cf. Gv 16,12-15). Anche se non è un’operazione facile commentare versetti non consecutivi, tentiamo comunque di farlo, con spirito d’obbedienza.

Gesù è ancora a tavola con i suoi discepoli dopo la lavanda dei piedi (cf. Gv 13,1-20) e pronuncia parole di addio, perché è “venuta l’ora di passare da questo mondo al Padre” (Gv 13,1). Sono parole che la chiesa giovannea ha custodito, meditato, interpretato e finalmente messo per iscritto, con un linguaggio e uno stile diversi da quelli delle parole uscite dalla bocca di Gesù. Potremmo dire che il discepolo amato e la sua chiesa hanno fatto “risorgere” le parole di Gesù e qui nel vangelo le ritroviamo nella loro verità, ma pronunciate dal Risorto glorioso, il Kýrios.

Sappiamo dai vangeli sinottici che Gesù aveva parlato dello Spirito santo, disceso su di lui nel battesimo (cf. Mc 1,10 e par.), e lo aveva promesso come dono ai discepoli, in particolare per l’ora della persecuzione (cf. Mc 13,11 e par.), quando lo Spirito sarà la loro autentica difesa, “parlando in loro” e “insegnando loro ciò che occorre dire”. Ed ecco la stessa promessa nel vangelo secondo Giovanni (cf. Gv 14,26-27): quando verrà il Parákletos – il chiamato accanto come difensore, soccorritore e consolatore, lo Spirito santificatore che Gesù, salito al Padre, invierà –, allora lo Spirito darà testimonianza a Gesù, così come faranno i discepoli stessi, che sono stati con lui fin dal principio della sua missione.

L’alito di Dio, che Gesù soffierà sui discepoli dopo la sua resurrezione, la vita stessa di Dio che è la vita di Gesù, sarà vita nei discepoli e li abiliterà a essere suoi testimoni. Avverrà così una sinergia tra la testimonianza dello Spirito e quella del discepolo riguardo a Cristo: anche quando gli uomini sentiranno estranei i cristiani, anche nelle persecuzioni e nelle ostilità subite da parte del mondo, nella potenza dello Spirito i cristiani continueranno a rendere testimonianza a Gesù. Questa è la funzione decisiva dello Spirito santo che, come fu “compagno inseparabile di Gesù” (Basilio di Cesarea), dopo che Gesù lo ha inviato dalla sua gloria presso il Padre, è il compagno inseparabile di ogni cristiano.

Riguardo a questo soffio divino Gesù dice ancora qualche parola (cf. Gv 16,12-15). Egli è consapevole di aver narrato, spiegato (exeghésato: Gv 1,18) Dio ai discepoli per alcuni anni con il suo comportamento e le sue parole, soprattutto amando i suoi fino alla fine (cf. Gv 13,1), ma sa anche che avrebbe potuto dire molte cose in più. Gesù sa che c’è una progressiva iniziazione alla conoscenza di Dio, una crescita di questa stessa conoscenza, che non può essere data una volta per tutte. Il discepolo impara a conoscere il Signore ogni giorno della sua vita, “di inizio in inizio, per inizi che non hanno mai fine” (Gregorio di Nissa). La vita del discepolo deve essere vissuta per una comprensione sempre più grande, e tutto ciò che una persona vive (incontri, realtà, ecc.), attraverso l’energia dello Spirito santo apre una via, approfondisce la conoscenza, rivela un senso. Ognuno di noi lo sperimenta: più andiamo avanti nella vita personale e nella risposta alla chiamata del Signore nella storia, più lo conosciamo! Il Vangelo è sempre lo stesso, “Gesù Cristo è lo stesso ieri e oggi e per sempre” (Eb 13,8), non cambia, ma noi lo conosciamo meglio proprio vivendo la nostra storia e la storia del mondo.

Per questo Gesù confessa di non aver detto tutto: ha detto l’essenziale riguardo a Dio, quello che basta alla salvezza, ma la conoscenza è infinita. Ora Gesù è nel Regno con il Padre, ma lo Spirito santo che egli invia ai discepoli ricorda loro le sue parole (cf. Gv 14,26), le approfondisce, rende comprensibile ciò che essi non hanno compreso su di lui durante la sua vita (cf. Gv 2,22; 12,16). Nuovi eventi e realtà sono illuminati e compresi proprio grazie alla presenza dello Spirito santo. Ma si faccia attenzione:

a Cristo non succede lo Spirito santo,

all’età del Figlio non succede quella dello Spirito,

perché lo Spirito che procede dal Padre è anche lo Spirito del Figlio (questo significa l’affermazione: “Tutto quello che il Padre possiede è mio”), inviato da lui e suo compagno inseparabile. Dove c’è Cristo c’è lo Spirito e dove c’è lo Spirito c’è Cristo! E la parola di Dio è sempre la stessa: in Mosè, nei profeti e nei salmi (cf. Lc 24,44) c’è una stessa parola di Dio, uscita dalla sua bocca insieme al suo soffio.

Leggendo la Pentecoste alla luce di queste parole di Gesù del quarto vangelo, oggi confessiamo che l’alito, il soffio di vita di Dio è il soffio di Cristo, è lo Spirito santo ed è il nostro soffio di cristiani: un soffio che scende su di noi e in noi costantemente e che, soprattutto nell’eucaristia, ci rinnova, donandoci la remissione di tutti i nostri peccati.

Enzo Bianchi

L’annuncio del Vangelo a tutta la creazione

Il Vangelo non può essere contenuto né in un popolo, né in una cultura, e neppure in un modo religioso di vivere la fede: gli inviati devono lasciarsi alle loro spalle terra, famiglia, legami e cultura, per guardare a nuove terre, a nuove culture, nelle quali il semplice Vangelo potrà essere seminato e dare frutti abbondanti.

Il brano evangelico che la chiesa ci propone per la solennità dell’Ascensione del Signore è tratto dalla conclusione aggiunta più tardi al vangelo secondo Marco da parte di “scribi cristiani”, che lo hanno completato con una chiusura meno brusca di quella del racconto originale (cf. Mc 16,1-8). Sono versetti che non si trovano nei manoscritti più antichi e sono sconosciuti a molti padri della chiesa. Tuttavia la chiesa li ha accolti come contenenti la parola di Dio, tanto quanto il resto del vangelo, e infatti sono conformi alle Scritture (secundum Scripturas: 1Cor 15,3.4); sono addirittura una sintesi dei finali degli altri vangeli (soprattutto dei sinottici), che raccontano gli eventi riguardanti Gesù risorto, asceso al cielo e glorificato dal Padre.

Secondo questa conclusione, Gesù apparve al gruppo dei Dodici privi di Giuda, agli Undici dunque, mentre giacevano a tavola. Costoro che, chiamati da Gesù alla sua sequela, erano stati coinvolti nella sua vita e avevano appreso da lui un insegnamento autorevole per almeno tre anni, nell’alba pasquale avevano ascoltato da Maria di Magdala l’annuncio della resurrezione di Gesù (cf. Mc 16,9-10), ma a lei “non credettero” (epístesan: Mc 16,11); anche i due discepoli di Emmaus avevano raccontato come il Risorto si era manifestato sulla strada (cf. Mc 16,12-13), “ma non credettero (epísteusan) neppure a loro” (v. 13). Per questo, quando Gesù “alla fine apparve anche agli Undici, mentre erano a tavola, li rimproverò per la loro incredulità (apistía) e durezza di cuore (sklerokardía), perché non avevano creduto (epísteusan) a quelli che lo avevano visto risorto” (Mc 16,14).

Questa è la verità che va detta, ed è stata detta nella chiesa (prova ne sia questo testo) quando non erano ancora dominanti il trionfalismo e l’adulazione delle autorità. Gli Undici sono stati preda del dubbio profondo, sono stati increduli dopo la morte di Gesù come lo erano stati durante la sua sequela, quando egli era stato costretto a rivolgersi alla sua comunità dicendo: “Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non ascoltate?” (Mc 8,17-18). Situazione disperante quella dei futuri testimoni, assaliti dall’incredulità! Come potranno annunciare la buona notizia, se neppure loro credono? In questa chiusura – si faccia attenzione – dopo i rimproveri Gesù non mostra segni per portare i suoi discepoli a credere, come la trafittura delle mani e dei piedi (cf. Lc 24,39-40) o quella del costato (cf. Gv 20,20.27)…

Ma nonostante il persistere di questa poca fede, Gesù invia proprio loro in una missione senza confini, veramente universale; una missione cosmica, si potrebbe anche dire: “Andati in tutto il mondo, annunciate la buona notizia a tutta la creazione”. Dovunque vanno, in tutte le terre e in tutte le culture, i discepoli di Gesù devono annunciare la buona notizia che è il Vangelo di Gesù. Non ci sono più le barriere del popolo eletto di Israele, non ci sono più i confini della terra santa: davanti a quei poveri discepoli titubanti c’è tutta la creazione! Il Vangelo non può essere contenuto né in un popolo, né in una cultura, e neppure in un modo religioso di vivere la fede nel Dio unico e vero: gli inviati devono lasciarsi alle loro spalle terra, famiglia, legami e cultura, per guardare a nuove terre, a nuove culture, nelle quali il semplice Vangelo potrà essere seminato e dare frutti abbondanti.

Quella che viene richiesta è un’opera di spogliazione ben più faticosa di quella dai semplici mezzi economici: si tratta, infatti, di abbandonare le certezze, gli appoggi intellettuali, gli assetti religiosi praticati fino a quel momento, e di immergersi in altre culture. Certo, per fare questo ci vuole fede nel Vangelo, nella sua “potenza divina” (dýnamis theoû: Rm 1,16), mentre occorre smettere di porre fede nella propria elaborazione o nei propri progetti culturali. Più spogli si va, più il Vangelo è annunciato con franchezza e, come seme non rivestito caduto a terra, germoglia subito e più facilmente. Quanti errori abbiamo commesso nell’evangelizzazione, confidando nei nostri mezzi, nelle nostre “ideologie”, e, in parallelo, disprezzando le culture degli altri, che sovente abbiamo mortificato e distrutto per imporre la nostra! E la sterilità del seme del Vangelo, soprattutto in Asia, dove esistevano culture che potevano concorrere con la nostra occidentale, è un segno evidente dell’errore fatto. Il Vangelo è caduto a terra come un seme ma, essendo un seme troppo rivestito, per causa nostra, non ha potuto marcire né, di conseguenza, germogliare.

Ecco il compito dei cristiani: senza febbre “proselitista”, senza cercare di guadagnare a ogni costo dei credenti, percorrendo i mari e le terre come i farisei (cf. Mt 23,15), dovunque si trovino i cristiani annuncino il Vangelo innanzitutto con la vita; poi, se Dio lo concede, con le parole. Sono parole di Francesco di Assisi, riprese da papa Francesco… Gesù non chiede di convincere né di imporre, ma di vivere il Vangelo con gioia, perché questa è la testimonianza. Oggi ci sono troppi leader cristiani che passano di palco in palco “per dare testimonianza”, finendo per raccontare la storia del loro movimento o della loro comunità. C’è solo da arrossire nel chiamare questo comportamento “testimonianza”; c’è da vergognarsi per una tale contraffazione del Vangelo! Meglio quei cristiani dubbiosi, magari come gli Undici, che tentano semplicemente e umilmente ogni giorno di essere cristiani dove si trovano, vivendo il Vangelo e amando Gesù Cristo al di sopra di tutto e di tutti. È di questi cristiani e cristiane che abbiamo bisogno, di discepoli e discepole, non di militanti!

Gesù, salito al cielo, non ci ha abbandonati, ma vivendo nella gloria di Dio ha lasciato noi poveri uomini e donne a dare al mondo segni che egli è risorto e vivente, che lavora insieme a noi e conferma la nostra povera parola con la Parola potente del Vangelo e con i segni del suo operare.

Enzo Bianchi

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